venerdì 31 marzo 2017

Dino Becagli e “Le regine dei boschi”


Mario Santoro


Che il teatro, negli ultimi tempi, sia come sottovalutato o non valutato abbastanza o almeno come dovrebbe, nella cultura genericamente intesa, appare un dato pressoché scontato al punto che, come sostengono studiosi ed esperti della materia ripetendo con insistenza il noto paradosso di Peter Brook “ Se ci fosse uno sciopero del teatro, nessuno se ne accorgerebbe”, si assiste ad una sorta di stagnazione.
Le cause del progressivo  disinteresse del pubblico, che ha tante alternative e molti motivi di distrazione e di divertimento, sono  varie e anche complesse da analizzare e tutte, o quasi, rimandano ad un generale decadimento della cultura e, conseguentemente, alla propensione verso programmi di mera evasione e che non comportino impegno alcuno.
Si determina, perciò, l’allontanamento e si  assiste alla crisi e all’ isolamento dell’attore di teatro che rischia di essere tagliato fuori se non ricorre, e non sempre è facile o possibile, alla multimedialità.
Vale un po’ quello che si dice per la poesia e per il poeta contemporaneo che è letteralmente smarrito e confuso e alla ricerca  sempre di nuove coordinate e di punti di riferimento.
Ma se tutto questo è certamente vero, non si spiega perché quando è l’attore Dino Becagli, in qualità di regista, a portare in scena personaggi e situazioni, l’interesse risulta vivo ed evidente come è accaduto in questi giorni con lo spettacolo “Le regine dei boschi” che è il racconto delle “brigantesse del postunitario in un musicol popolare” con attori come Chicca Anastasi, Eva Bonitatibus, Tonia Bruno, Lorenza Colicigno, Giancarlo Cuscino, Nicola Fiore, Iole Franco, Nura Spinazzola, con gli arrangiamenti musicali di Rocco Gruosso su brani di Pietro Basentini, con le scene  e i costumi di Gerardo Viggiano, il coordinamento tecnico di Antonio  Salvia e l’accompagnamento del coro Melos, diretto da Enza Carlucci e costituito da Nadia Colonnese, Michele Di Tommaso, Rocco Gruosso, Maria Rosaria Napoli, Alessandra Nobile, Leo Nuzzaci, Mauro Panzanaro, Antonio Santarsiere, Cinzia Sanza,  Antonella Sterlicchio.
La sorpresa è tanto più grande se si considera che per quattro serate (non una o due, si badi bene!)  il teatro è stato letteralmente gremito ed alcuni hanno dovuto rinunciare per la mancanza di biglietti. Mi pare si tratti di un evento talmente raro da generare stupore che forse dovrebbe spingere alla riflessione.
La risposta sta tutta nella bravura  del regista da sempre super impegnato e alla ricerca di temi sul versante dell’identità culturale-regionale ed ultra e con attenzione alla scelta dei contenuti, senza mai scadimenti nel facilismo di maniera o nella ricerca dell’effetto immediato e del semplice consenso; rigoroso nell’indagine e nella cura dei particolari con spirito progettuale oggettivo  e con alla base una preparazione di fondo fuori dal comune egli profonda il massimo delle energie e punta sempre ad un prodotto di qualità.
Di qui, per il lavoro su indicato, lo studio attento e meditato e la disposizione alla ristrutturazione dei testi con numerose operazioni di smontaggio per scritture sempre più affinate e meglio adeguate alle situazioni, sulla scia dei grandi maestri come Ronconi, Castri  o ancora Sepe, ma anche  come De Bernardis o Carmelo Bene, solo per fare qualche nome, e con rimando a certe forme come quelle del teatro minimalista, con la messa in crisi della parola accusata sovente di falsità e di convenzionalismo esasperato, ma anche con richiamo al teatro cosiddetto letterario e alla rappresentazione del ben noto “dialetto multiplo” collegato fortemente alla condizione emotiva nel rimando immediato al sistema sociale e quasi nella propensione ad andare oltre il fenomeno della contaminazione e del bilinguismo.
Cultura profonda, dunque, che, senza sbandieramenti, alla fine domina, com’è giusto  che sia, senza imposizioni perché Dino Becagli appartiene a quel genere di persone che, se conosce al meglio dieci parole, ne pronuncia una e non all’altro gruppo, che raccoglie la maggior parte della gente che se ha sentito una parola è capace di vomitarne  tante, sbandierando magari la facile pomposa affermazione di non prendere lezioni da nessuno e di rimanere, conseguentemente sempre al palo.
Alludo, se non si fosse compreso, alla modestia che è stile di vita dell’autore e che, coi tempi (mala tempora) che corrono, rischia di non essere, se non alla distanza, una virtù .
Lo spettacolo risulta gradevolissimo ed interessante, diretto ed efficace, immediatamente coinvolgente,  sin dal primo impatto, originale non solo nell’impostazione ma anche nello sviluppo, equilibrato in ogni sua parte, ricco di notazioni storiche,  con situazioni  varie e modalità di riferimento personalizzate e di rimandi che potevano rischiare il velo della monotonia e della ripetitività; inoltre risulta capace di oltrepassare i limiti del consueto abitudinario e di impedire il pericolo della cristallizzazione di stereotipi che la storia ufficiale, che è sempre quella dei vincitori, comodamente tramanda ma anche di evitare di cadere  nell’esatto contrario, e cioè nella rivalutazione e valorizzazione acritica dei vinti, ossia di coloro che, fatalmente, sono destinati a rimanere senza voce.
Va detto ancora che lo spettacolo evidenzia una chiave critica e di natura globale molto chiara, ben ancorata ai fatti oggettivi e mostra un perfetto raccordo delle situazioni tra loro ben amalgamate e di conseguenza non c’è mai il rischio della spezzettatura o dell’incrinatura  dell’unità del montaggio e quindi non si  assiste al ricorso ai cosiddetti trucchi del mestiere, e mantiene una costante ritmicità dal principio alla fine.
Perciò lo spettatore non è mai stato costretto alla passività ma sempre compartecipe attivo delle varie situazioni, se non anche , in taluni passaggi, co-attore.
Il testo teatrale, smontato, rimontato, come già detto, scritto e riscritto, meditato  e ripensato, in un lavoro di revisione continuo fino alla ossessività, risulta tale da consentire margini e spazi di libertà agli interpreti nella diversificata e ugualmente efficacia presentazione dei soggetti in  questione e dunque in nessun punto rischia il rigidismo spesso presente in alcune manifestazioni.
Le diverse brigantesse, per l’occasione “regine” dei boschi, di provenienze varie ed anche ultraregionali, raccontano con il loro linguaggio, ora tagliente, ora duro, ora al contrario morbido, più spesso rapido ed impressivo o ironico e mordace, le loro storie ricche di violenze, prepotenze, cattiverie, tradimenti, intrighi, gelosie ma anche di sentimenti buoni, di fedeltà usque ad, di amori,  con passaggi allusivi facili da intendere, con  il riconoscimento delle proprie colpe ma anche con accuse puntuali e veritiere, con analisi sorprendentemente acute nella loro essenzialità e senza indulgere pro o contro conservando sempre il dato della oggettività.
Non fanno torto alla storia che è sempre più complicata di come appare se vista da una sola angolazione, con il rimando indiretto  e appena accennato alle condizioni socio-culturali del tempo conservando il giusto equilibrio tra la narrazione di cui parlano i libri di scuola e la controstoria o storia altra, tra i racconti ufficiali e, ovviamente solo in parte veritieri, imposti dai vincitori, come accade sempre a tutte le latitudini e in tutti tempi, e quelli ufficiosi,  scarsamente tenuti in considerazione e talora portati all’enfasi e all’esagerazione  che finiscono, dileggiati ad arte, col danneggiare se stessi.
Emerge, contro la visione storica di chi  vince che Pareto definisce della aristocrazia, con tutto quello che ne consegue, un quadro più valido tra torti e ragioni più o meno equamente distribuiti, come ha tentato di fare nei suoi libri Carlo Alianello, e soprattutto lo sforzo di analizzare le condizioni di vita come racconta una brigantessa che  prende in considerazione un aspetto della storia generalmente trascurato, ossia l’organizzazione logistica e le difficoltà pratiche, vuoi per procurarsi cibo in quantità notevole per  gli uomini e per i cavalli, vuoi per la disposizione delle stalle, i  luoghi dormitori maleodoranti, la continua promiscuità, le difficili condizioni igienico sanitarie e la conseguente lotta finanche contro i pidocchi, come racconta, in certe pagine straordinarie e di rara intensità, lo scrittore lucano  Felice Scardaccione,  autore del bel romanzo  “El Alamein” .
E qui, va detto, sarebbe logico attendersi da parte delle “regine” il diritto a pretendere una maggior attenzione e considerazione per i ribelli  la cui situazione era di gran lunga peggiore rispetto ai soldati piemontesi e invece (ed è stato apprezzatissimo) esse  mantengono la giusta distanza, pur evidenziando, da parte dei nemici aggressori, stupri, violenze, sopraffazioni, mancanza di rispetto di ogni sorta di diritto umano, calpestato senza riguardo e talora brutalmente,  e non tacciono altrettanta violenza da parte del  mondo  minoritario dei briganti, con giudizi di autocritica apertamente dichiarati e finanche impietosi.
A tratti affondano nella storia alla ricerca di cause diverse, di impegni non mantenuti, di promesse sistematicamente mancate con chiaro rimando alla “terra ai contadini” da parte di Garibaldi; ricordano che proprio la speranza del mondo rurale e agricolo di poter disporre della terra per lavorare  aveva spinto i contadini  a schierarsi dalla parte del Piemontese; sottolineano l’unificazione fatta come conquista e non come liberazione, l’imposizione di regole e norme senza contropartita, il generale malcontento, la disobbedienza sistematica, il rifiuto della leva obbligatoria e altro ancora.
Tutto questo viene fuori con chiarezza e semplicità e si coglie per tratti soprasegmentali anche quando non è espressamente dichiarato oltre che per sottili allusioni, senza scadere, come accade in altri spettacoli, in una sorta di fatalismo e di sorte nera.
Di conseguenza lo spettacolo ne guadagna in tutti i sensi.
Di qui, io credo, la scelta accurata dei canti durante tutta la rappresentazione, nella evidente morbidezza dei toni e di qui il rifiuto di taluni più noti e scontati ma anche più rumorosi nella facile assonanza ed esagerazione a scapito della obbiettività.
E si potrebbe anche dire che tutta la rappresentazione è anche una bella pagina al femminile dal momento che sono le donne le  vere protagoniste, con il loro stile inconfondibile, le differenti personalità, la forza spirituale dei loro caratteri, i tratti peculiari che sovente le rendono superiori agli uomini e comunque sempre degne di essere alla pari degli stessi.
Uno spettacolo ben degno di attenzione e meritevole di essere ripetuto altrove per una diffusione capillare e per il recupero di processi di cultura che richiamano l’identità di un popolo; una rappresentazione che fa onore alla città, capoluogo di regione, in contrapposizione con la scarsa vitalità della stessa, lamentata da tanti che invocano, giustamente, la necessità della valorizzazione appunto perché centro di riferimento più grande.
Aspirazione, quest’ultima, legittima!
E sono fortemente convinto che lo spettacolo di Dino Becagli vada anche in questa direzione e che, occasioni come questa, vadano sfruttare al meglio da parte di chi  di competenza, in un’opera di diffusione nell’ambito regionale e oltre, facendo magari anche lo sforzo di rendere meglio fruibile il teatro cittadino, che è un piccolo gioiello e dovrebbe essere facilmente raggiungibile anche da parte dei potentini che non abitano nel centro storico, e sono la stragrande maggioranza.
E così, considerata la penuria di parcheggi, almeno nei giorni  degli spettacoli che contano, si potrebbe ipotizzare l’apertura delle scale mobili (altro gioiello cittadino) oltre l’orario miserevole delle ventidue per un rientro comodo e tranquillo, o almeno non faticoso e avventuroso.
Si tratta di un suggerimento banale (sempre che non si voglia impugnare lo scudo tipico di chi  non prende lezioni da nessuno di cui sopra) quanto utile  che potrebbe contribuire a dare respiro alla città che diversamente rischia di rimanere, come sottolineano critici importanti, un anonimo paese senz’anima.

Si tratta di una piccola cosa che Dino Becagli, il teatro, e la città, capoluogo di regione,  meritano.

martedì 28 marzo 2017

LE REGINE DEI BOSCHI
LA COMPAGNIA AL COMPLETO DIETRO LE QUINTE PRIMA DELLO SPETTACOLO DEL 27.03.2014 
L'immagine può contenere: 16 persone, persone sedute e persone in piedi

mercoledì 22 marzo 2017

LE REGINE DEI BOSCHI
ovvero le brigantesse del postunitario

DAL 26 AL 29 MARZO 2017 AL TEATRO STABILE di POTENZA

PREVENDITA C/O IL BOTTEGHINO  DEL TEATRO
POSTI NUMERATI € 10  LOGGIONE € 5 

sabato 18 marzo 2017

BIGLIETTI IN PREVENDITA

AL BOTTEGHINO DEL TEATRO STABILE DALLE 17 ALLE 20


POSTI NUMERATI € 10    LOGGIONE € 5


venerdì 10 marzo 2017

I BIGLIETTI SARANNO IN VENDITA AL BOTTEGHINO DELLO STABILE UNA SETTIMANA PRIMA DELLO SPETTACOLO  - PER PRENOTAZIONI TEL  3358498614


domenica 5 marzo 2017


Un musical con i canti sul brigantaggio meridionale


E' il nuovo spettacolo del Teatro Minimo di Basilicata, con i brani del grande Pietro Basentini

Ogni volta che ci si accinge all’ennesima messinscena (quest’anno il Teatro Minimo di Basilicata presenta Le regine dei boschi, un musical popolare che ha come protagoniste sei tra le maggiori brigantesse del postunitario), tornano alla mente artisti scomparsi, amici di cordata che la nostra città ben ricorda.
Proprio il 29 marzo, ultimo giorno di replica del nuovo spettacolo del TMB, cadrà il terzo anniversario della scomparsa di Nanni Tamma, la voce radiofonica per eccellenza, gran maestro e amico a cui tanto tanti devono. E viene da pensare che sarebbe opportuno intitolare a lui una via cittadina e di qui si lancia un appello.
Altro artista che meriterebbe egual sorte è Pietro Basentini, scomparso nell’agosto 2011, le cui canzoni sul brigantaggio costituiscono il fil rouge, la spina dorsale su cui poggia l’intero musical. Pietro, lo si ricorda ai giovani che non hanno avuto modo di ascoltarlo e apprezzare le sue tele, è stato un artista poliedrico con la colpa di essere rimasto in questa nostra città che, come tanti altri centri di provincia, poco aiuta ad emergere.
La genesi del canto brigantesco è pressoché impossibile da ricostruire. Tramandati oralmente di padre in figlio, questi canti si diffusero dopo l’unità d’Italia, quando le bande dei briganti iniziarono a proliferare nelle aree agricole del Meridione.
La maggior parte di queste canzoni hanno origini lucane, calabresi e campane e fino alla seconda metà del secolo scorso venivano ancora cantate dagli anziani, ignari custodi di questo folclore antico e prezioso. Argomento di ricerca e promozione, questo canto civile appassionò anonimi cantastorie, studiosi e cantautori impegnati tra cui, certamente Pietro, ma anche Otello Profazio, Matteo Salvatore, il più celebre Domenico Modugno e i più recenti Teresa De Sio ed Eugenio Bennato.

Il Teatro Minimo di Basilicata continua dunque ad aprire finestre sulla storia e la cultura meridionale e, nonostante il filone brigantaggio appaia oggi inflazionato, si augura di coinvolgere il pubblico dei giovani, appassionati di musica popolare che queste canzoni di storie di briganti probabilmente non conoscono.