Mario Santoro
Dino Becagli non finisce mai di stupire. Riesce a superarsi e a
riproporsi in maniera sempre più convincente con prove assai impegnative.
Accade con l'ultima performance come regista
dal titolo "A momenti ti mettevi a volare" liberamente tratta
da "Gli anni del nostro incanto", un pregevole romanzo dello
scrittore Giuseppe Lupo, stando al giudizio di molti critici.
In questo caso si cimenta con un
lavoro non scevro da qualche rischio perché chi conosce il romanzo dello
scrittore Lupo, potrebbe attendersi una riproduzione fedele dello stesso con il rischio della delusione,
almeno parziale, proprio come chi si accingerà successivamente alla lettura
suggestionato dalla pièce di Becagli.
Si tratta di una rivisitazione a tutto
tondo di uno dei periodi più
ricchi di cambiamento dagli anni Sessanta all'inizio degli anni Ottanta.
Gli elementi di richiamo sono davvero tanti, significativi ed estremamente
rapidi al punto che si ha la sensazione di non riuscire nemmeno in parte ad
assorbire la portata innovativa degli stessi per il sopraggiungere di sempre
nuove modalità dal punto di vista economico, politico, sociale, culturale. Vale
la pena ripercorrere rapidissimamente quegli anni anche per comprendere la
doppia complessità: quella dello scrittore nella stesura del romanzo; quella di
Dino Becagli che ha dovuto, supponiamo, selezionare solo alcune situazioni.
Tutto prende avvio dall'inizio del boom economico, con il mito del
lavoro in fabbrica, le officine che
lavorano a tempo pieno, l'immissione sul mercato della mitica vespa, l'avvento
della televisione, i primi quiz televisivi (Lascia o raddoppia in testa), la realizzazione
dell'autostrada che unisce il Nord al
Sud del paese, modelli sempre nuovi di automobili per famiglie. Si tratta di un
fervore di attività con masse che si spostano dalle campagne alle città.
Seguono gli anni della contestazione che vede il suo momento culminante
nel Sessantotto. Si determina una insanabile frattura tra genitori e figli con
la ribellione dei secondi contro i primi accusati di sfruttamento e incapaci di
cogliere i segni del cambiamento. Si oppongono due mondi che paiono
inconciliabili tra innovazioni anche significative come l'istituzione della
scuola media obbligatoria e la caduta di taluni tabù.
Si passa poi agli anni che la storia definirà del diritto: divorzio,
referendum, statuto di lavoratori, termini della carcerazione preventiva,
difesa e protezione delle lavoratrici madri con la disincentivazione del lavoro
a domicilio, istituzione della scuola elementare a tempo pieno, obiezione di
coscienza al servizio militare, diritto di famiglia, maggiore età a 18 anni,
parità uomo-donna, chiusura dei manicomi (legge Basaglia).
Seguiranno gli anni cosiddetti di piombo a causa delle stragi fasciste
con tante uccisioni anche da parte del terrorismo rosso, una certa timidezza,
per usare un eufemismo, da parte di uomini dello Stato e un clima di odio, di
sospetti, di protesta, di ribellione, con manifestazioni violente e azioni di
guerriglia urbana. Tuttavia malgrado ciò si ha sempre la sensazione di poter coltivare seranze sul futuro, pur
nel generale disordine, perché nelle grandi città i giovani frequentano locali
pubblici, cinema, teatri.
Forse troppa carne al fuoco ma Becagli sa dare, attraverso il suo
lavoro, un quadro di insieme
particolarmente efficace scegliendo, senza perdersi o lasciarsi fuorviare, tra
i numerosissimi spunti di riflessione che il libro di Lupo gli offre e
probabilmente andando anche oltre; lo fa, come di consueto, con cura direi
anche meticolosa e attenta senza farsi prendere la mano e indulgere su alcune
situazioni ma mantenendo in maniera perfetta un equilibrio, precario e come pronto a spezzarsi, che resiste.
Dunque un percorso nel tempo attraverso diversi binari pressocché
paralleli anche se vicini e a tratti capaci di sfiorarsi in una contaminazione breve solo in
apparenza. E così c'è il percorso che si snoda sulla linea economica di un Paese
da poco uscito dalle macerie della guerra mondiale con l'ansia crescente di uno
sviluppo foriero di benessere e di conquiste significative. Di qui il
trasferimento, anche sull'onda emotiva dell'amore, che spinge Louis a dirigersi a Milano con la mitizzazione del
lavoro in fabbrica, l'abbandono del
luogo natio, il senso del tradimento nei
confronti dei genitori. E lo strappo con la famiglia di origine è raccontato per flash senza rancori o rabbie, con
implicito, una punta di malinconia ma nessuna forma di pentimento perché
l'amore, inteso nella sua accezione più completa, trionfa e con esso il bisogno
di affrancamento che si accompagna al sogno, alla volontà di voler guardare
lontani, al bisogno dignitoso di vivere decorosamente e felicemente e di godere
le piccole-grandi conquiste quotidiane
racchiuse assai bene nell'immagine della foto di una famiglia, una coppia e due
figli piccoli su una vespa a girare
liberamente per le vie della grande Milano, città che sa accogliere.
Ma si tratta anche di un percorso a ritroso nel tempo attraverso
l'impegno, assai gravoso della figlia Vittoria, a richiamare la realtà alla
mente della madre, che ha perduto, quasi totalmente, la memoria o ha deciso di
chiudersi in se stessa per non voler più ricordare. Il dialogo-monologo procede
con sfaccettature diverse, tra speranze, che a tratti compaiono e sembrano da
un momento all'altro dover esplodere facendo accendere la lampadina nella mente
della madre, e delusioni che subentrano
a generare lo scoraggiamento e lo sconforto senza scalfine mai la decisone di
continuare a lottare tenacemente e teneramente, ricorrendo a tratti alla magia
della fotografia della famiglia sulla
vespa, unica a suscitare, per qualche secondo, l'attenzione.
Sul filo degli episodi che la giovane sa riportare, con leggerezza e
pensosità, in un alternarsi di intrecci che giustifica l'ossimoro, si snoda da
un lato la storia di una famiglia, indicativa di tantissime situazioni comuni,
e dall'altro, in maniera non sempre dichiarata apertamente, quella di un Paese
in evidente trasformazione e, per molti
versi, incapace di gestire al meglio il cambiamento. Ne consegue un
intreccio continuo. E poi va da sé che
la storia individuale non è mai tale
nella realtà ma è sempre storia collettiva perché non appartiene alla sola famiglia ma ad un
contesto sociale allargato e perché in essa, opportunamente, si inseriscono
situazioni, che accomunano l'intero Paese e il mondo.
Su tutti basterebbe ricordare due episodi: il campionato del mondo di
calcio con la vittoria dell'Italia che segna, con stridente contrasto, la non
partecipazione del padre, protagonista della prematura dipartita; lo sbarco
sulla luna che rappresenta una conquista
di tutto il pianeta.
I personaggi sono tutti bravi e preparati. Oltre alla giovane Vittoria
(Daniela Ditaranto), va ricordato il fratello di lei, Indiano (Giovanni
Pelliccia), con l'enorme bagaglio di sogni e di contrasti con la realtà, di
silenzi e di solitudini, di atteggiamenti quieti eppure di grandi decisioni
improvvise e dolorose per la famiglia come quella di farsi prete e di chiudersi
in convento, senza segni di preavviso e successivamente di trovarsi implicato
in situazioni estreme e gravide di conseguenza.
C'è poi Regina (Giovanna Vignola), madre dei due giovani che chiude col mondo alla morte prematura del
marito Louis (Giuseppe Pergola); c'è ancora nonna Vittoria (Giusi Locuratolo)
che mantiene la sua riservata e silenziosa presenza, carica di sofferenza e di
dolore non solo quando veglia sul figlio agonizzante con ostinazione muta che
la costringe al capezzale del letto a sgranare il rosario ma anche e
soprattutto quando l'infausto evento è
in procinto di verificarsi. Ed è significativa l'espressione che la unisce alla
nuora in un rapporto tristemente solidale e che è un vero condensato di
sofferenza, di rassegnazione, di obbligata accettazione:
"Dobbiamo prepararci al peggio".
Infine c'è un medico della struttura ospedaliera (Rocco Laurita).
Vanno giustamente menzionati i due bravi cantanti, Dino Lorusso e Nura Spinazzola
così come risultano apprezzabili gli arrangiamenti musicali di Rocco Gruosso,
l'allestimento dei costumi di Gerardo Viggiano, il coordinamento tecnico di
Antonio Salvia e l'assistenza alla regia
di Chicca Anastasia.
Due sono i piani di azione di cui
si compone la scena e sono distingibili senza possibilità di equivoci:
da un lato si comprende già al primo impatto di essere in una sala di una clinica; dall'altro ci si
ritrova in un ambiente dove si alternano Louis, Indiano e nonna Vittoria che rappresentano
tre generazioni.
Ci sono parti dialogate, ridotte al minimo, come minimalista è tutto
l'insieme, che completano o intervallano memorie che sono rievocate per
segmenti in una sorta di ricucitura leggera e si intrecciano risultando sempre
complementari e come filtrate dalla finestra che, posta in fondo, consente
quasi di poter guardare non fuori ma dentro
e indietro nel tempo.
La storia è decisamente bella e si connota come triste ma al tempo
stesso non intristisce ed educa al ripensamento, agli interrogativi
esistenziali, alla riflessione, al senso della storia, quella comune e
quotidiana ugualmente importante, ed è sempre permeata di una dolcezza
accattivante.
Nella rappresentazione traspira gentilezza, garbo, gioia in alcuni
momenti, senso della conquista e della scoperta del meglio, illusione in un
futuro roseo anche nei momenti meno chiari e risulta sopportabile nella
rievocazione dei momenti più bui e si fa
appagante nella considerazione dei traguardi raggiunti come, per esempio,
negll'acquisto degli elettrodomestici che cambiano la vita familiare e rendono
la donna meno schiava.
Ed è dolce, tenera e, a tratti, commovente nella drammatica lotta che la figlia Vittoria ingaggia con
pazienza, tolleranza, tenacia, passando con rapidità e immediatezza dal pianto al riso, dallo
scoraggiamento al velo di speranza, dal buio alla luce sempre avendo chiaro nella mente la meta da raggiungere:
rompere il silenzio della madre, aprire uno spiraglio, squarciare il buio,
accendere una piccola spia. E tutto avviene senza forzatura, con passaggi di
voce naturalissimi, con notevole carico di drammaticità, sempre trattenuto e
nobiltato.
C'è un profondo senso di armonia che non si interrompe mai e che non scade nel rischio di scivolare
nella monotonia: insomma l'effetto insieme oltre che assicurato, appare
qualcosa di più della somma delle singole parti interagenti e aggrumantesi
intorno al nucleo centrale della storia.
Non saprei dire fino a che punto il lavoro di Dino renda giustizia al
romanzo di Giuseppe Lupo, per non averlo voluto leggere prima dello spettacolo
(cosa che farò in vacanza) per non
essere legato a un limitante orizzonte di attesa e tuttavia mi viene da pensare
che, almeno in certi punti, ne esalti il valore
senza creare sovrapposizione.
Non a caso, lo stesso scrittore,
presente alla rappresentazione teatrale, replicando al regista che, con la
modestia che lo contraddistingue, evidenzava il limite implicito ad ogni tipo
di riduzione teatrale e sottolineava la difficoltà della scelta di talune
situazioni e quindi il rischio di non rendere merito all'opera etteraria,
precisava, al contrario, il notevole apporto qualitativo della pièce.
Ci sarebbe
molto da dire ancora ma il desiderio di testimoniare nell'immediato inducono a
chiudere la breve e lacunosa analisi, della quale ci si scusa nella certezza della comprensione.
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