martedì 3 luglio 2018

"A MOMENTI TI METTEVI A VOLARE" di Dino Becagli -Pièce teatrale liberamente tratta da "Gli anni del nostro incanto" di Giuseppe Lupo

Mario Santoro


Dino Becagli non finisce mai di stupire. Riesce a superarsi e a riproporsi in maniera sempre più convincente con prove assai impegnative. Accade con l'ultima performance come regista  dal titolo "A momenti ti mettevi a volare" liberamente tratta da "Gli anni del nostro incanto", un pregevole romanzo dello scrittore Giuseppe Lupo, stando al giudizio di molti critici.
In questo caso si  cimenta con un lavoro non scevro da qualche rischio perché chi conosce il romanzo dello scrittore Lupo, potrebbe attendersi una riproduzione fedele  dello stesso con il rischio della delusione, almeno parziale, proprio come chi si accingerà successivamente alla lettura suggestionato dalla pièce di Becagli.
Si tratta di una rivisitazione a tutto  tondo di uno  dei periodi più ricchi di cambiamento dagli anni Sessanta all'inizio degli anni Ottanta.
Gli elementi di richiamo sono davvero tanti, significativi ed estremamente rapidi al punto che si ha la sensazione di non riuscire nemmeno in parte ad assorbire la portata innovativa degli stessi per il sopraggiungere di sempre nuove modalità dal punto di vista economico, politico, sociale, culturale. Vale la pena ripercorrere rapidissimamente quegli anni anche per comprendere la doppia complessità: quella dello scrittore nella stesura del romanzo; quella di Dino Becagli che ha dovuto, supponiamo, selezionare solo alcune situazioni.
Tutto prende avvio dall'inizio del boom economico, con il mito del lavoro in fabbrica,  le officine che lavorano a tempo pieno, l'immissione sul mercato della mitica vespa, l'avvento della televisione, i primi quiz televisivi (Lascia o  raddoppia in testa), la realizzazione dell'autostrada  che unisce il Nord al Sud del paese, modelli sempre nuovi di automobili per famiglie. Si tratta di un fervore di attività con masse che si spostano dalle campagne alle città.
Seguono gli anni della contestazione che vede il suo momento culminante nel Sessantotto. Si determina una insanabile frattura tra genitori e figli con la ribellione dei secondi contro i primi accusati di sfruttamento e incapaci di cogliere i segni del cambiamento. Si oppongono due mondi che paiono inconciliabili tra innovazioni anche significative come l'istituzione della scuola media obbligatoria e la caduta di taluni tabù.
Si passa poi agli anni che la storia definirà del diritto: divorzio, referendum, statuto di lavoratori, termini della carcerazione preventiva, difesa e protezione delle lavoratrici madri con la disincentivazione del lavoro a domicilio, istituzione della scuola elementare a tempo pieno, obiezione di coscienza al servizio militare, diritto di famiglia, maggiore età a 18 anni, parità uomo-donna, chiusura dei manicomi (legge Basaglia).
Seguiranno gli anni cosiddetti di piombo a causa delle stragi fasciste con tante uccisioni anche da parte del terrorismo rosso, una certa timidezza, per usare un eufemismo, da parte di uomini dello Stato e un clima di odio, di sospetti, di protesta, di ribellione, con manifestazioni violente e azioni di guerriglia urbana. Tuttavia malgrado ciò si ha sempre la sensazione  di poter coltivare seranze sul futuro, pur nel generale disordine, perché nelle grandi città i giovani frequentano locali pubblici, cinema, teatri.
Forse troppa carne al fuoco ma Becagli sa dare, attraverso il suo lavoro, un  quadro di insieme particolarmente efficace scegliendo, senza perdersi o lasciarsi fuorviare, tra i numerosissimi spunti di riflessione che il libro di Lupo gli offre e probabilmente andando anche oltre; lo fa, come di consueto, con cura direi anche meticolosa e attenta senza farsi prendere la mano e indulgere su alcune situazioni ma mantenendo in maniera perfetta un equilibrio, precario e  come pronto a spezzarsi, che resiste.
Dunque un percorso nel tempo attraverso diversi binari pressocché paralleli anche se vicini e a tratti capaci di sfiorarsi  in una contaminazione breve solo in apparenza. E così c'è il percorso che si snoda sulla linea economica di un Paese da poco uscito dalle macerie della guerra mondiale con l'ansia crescente di uno sviluppo foriero di benessere e di conquiste significative. Di qui il trasferimento, anche sull'onda emotiva dell'amore, che spinge Louis  a dirigersi a Milano con la mitizzazione del lavoro in  fabbrica, l'abbandono del luogo natio, il senso del tradimento  nei confronti dei genitori. E lo strappo con la famiglia di origine è raccontato  per flash senza rancori o rabbie, con implicito, una punta di malinconia ma nessuna forma di pentimento perché l'amore, inteso nella sua accezione più completa, trionfa e con esso il bisogno di affrancamento che si accompagna al sogno, alla volontà di voler guardare lontani, al bisogno dignitoso di vivere decorosamente e felicemente e di godere le piccole-grandi  conquiste quotidiane racchiuse assai bene nell'immagine della foto di una famiglia, una coppia e due figli piccoli  su una vespa a girare liberamente per le vie della grande Milano, città che sa accogliere.
Ma si tratta anche di un percorso a ritroso nel tempo attraverso l'impegno, assai gravoso della figlia Vittoria, a richiamare la realtà alla mente della madre, che ha perduto, quasi totalmente, la memoria o ha deciso di chiudersi in se stessa per non voler più ricordare. Il dialogo-monologo procede con sfaccettature diverse, tra speranze, che a tratti compaiono e sembrano da un momento all'altro dover esplodere facendo accendere la lampadina nella mente della  madre, e delusioni che subentrano a generare lo scoraggiamento e lo sconforto senza scalfine mai la decisone di continuare a lottare tenacemente e teneramente, ricorrendo a tratti alla magia della fotografia  della famiglia sulla vespa, unica a suscitare, per qualche secondo, l'attenzione.
Sul filo degli episodi che la giovane sa riportare, con leggerezza e pensosità, in un alternarsi di intrecci che giustifica l'ossimoro, si snoda da un lato la storia di una famiglia, indicativa di tantissime situazioni comuni, e dall'altro, in maniera non sempre dichiarata apertamente, quella di un Paese in evidente trasformazione e, per  molti versi, incapace di gestire al meglio il cambiamento. Ne consegue un intreccio  continuo. E poi va da sé che la storia individuale  non è mai tale nella realtà ma è sempre storia collettiva perché  non appartiene alla sola famiglia ma ad un contesto sociale allargato e perché in essa, opportunamente, si inseriscono situazioni, che accomunano l'intero Paese e il mondo.
Su tutti basterebbe ricordare due episodi: il campionato del mondo di calcio con la vittoria dell'Italia che segna, con stridente contrasto, la non partecipazione del padre, protagonista della prematura dipartita; lo sbarco sulla luna che rappresenta una conquista   di tutto il pianeta.
I personaggi sono tutti bravi e preparati. Oltre alla giovane Vittoria (Daniela Ditaranto), va ricordato il fratello di lei, Indiano (Giovanni Pelliccia), con l'enorme bagaglio di sogni e di contrasti con la realtà, di silenzi e di solitudini, di atteggiamenti quieti eppure di grandi decisioni improvvise e dolorose per la famiglia come quella di farsi prete e di chiudersi in convento, senza segni di preavviso e successivamente di trovarsi implicato in situazioni estreme e gravide di conseguenza.
C'è poi Regina (Giovanna Vignola), madre dei due giovani  che chiude col mondo alla morte prematura del marito Louis (Giuseppe Pergola); c'è ancora nonna Vittoria (Giusi Locuratolo) che mantiene la sua riservata e silenziosa presenza, carica di sofferenza e di dolore non solo quando veglia sul figlio agonizzante con ostinazione muta che la costringe al capezzale del letto a sgranare il rosario ma anche e soprattutto quando  l'infausto evento è in procinto di verificarsi. Ed è significativa l'espressione che la unisce alla nuora in un rapporto tristemente solidale e che è un vero condensato di sofferenza, di rassegnazione, di obbligata accettazione:
"Dobbiamo prepararci al peggio".
Infine c'è un medico della struttura ospedaliera (Rocco Laurita).
Vanno giustamente menzionati i due bravi cantanti, Dino Lorusso e Nura Spinazzola così come risultano apprezzabili gli arrangiamenti musicali di Rocco Gruosso, l'allestimento dei costumi di Gerardo Viggiano, il coordinamento tecnico di Antonio  Salvia e l'assistenza alla regia di Chicca Anastasia.
Due sono i piani di azione di cui  si compone la scena e sono distingibili senza possibilità di equivoci: da un lato si comprende già al primo impatto di essere  in una sala di una clinica; dall'altro ci si ritrova in un ambiente dove si alternano Louis, Indiano e nonna Vittoria che rappresentano tre generazioni.
Ci sono parti dialogate, ridotte al minimo, come minimalista è tutto l'insieme, che completano o intervallano memorie che sono rievocate per segmenti in una sorta di ricucitura leggera e si intrecciano risultando sempre complementari e come filtrate dalla finestra che, posta in fondo, consente quasi di poter guardare non fuori ma dentro  e indietro nel tempo.
La storia è decisamente bella e si connota come triste ma al tempo stesso non intristisce ed educa al ripensamento, agli interrogativi esistenziali, alla riflessione, al senso della storia, quella comune e quotidiana ugualmente importante, ed è sempre permeata di una dolcezza accattivante.
Nella rappresentazione traspira gentilezza, garbo, gioia in alcuni momenti, senso della conquista e della scoperta del meglio, illusione in un futuro roseo anche nei momenti meno chiari e risulta sopportabile nella rievocazione dei momenti più bui e si  fa appagante nella considerazione dei traguardi raggiunti come, per esempio, negll'acquisto degli elettrodomestici che cambiano la vita familiare e rendono la donna meno schiava.
Ed è dolce, tenera e, a tratti, commovente nella drammatica  lotta che la figlia Vittoria ingaggia con pazienza, tolleranza, tenacia, passando con rapidità  e immediatezza dal pianto al riso, dallo scoraggiamento al velo di speranza, dal buio alla luce sempre avendo  chiaro nella mente la meta da raggiungere: rompere il silenzio della madre, aprire uno spiraglio, squarciare il buio, accendere una piccola spia. E tutto avviene senza forzatura, con passaggi di voce naturalissimi, con notevole carico di drammaticità, sempre trattenuto e nobiltato.
C'è un profondo senso di armonia che non si interrompe mai  e che non scade nel rischio di scivolare nella monotonia: insomma l'effetto insieme oltre che assicurato, appare qualcosa di più della somma delle singole parti interagenti e aggrumantesi intorno al nucleo centrale della storia.
Non saprei dire fino a che punto il lavoro di Dino renda giustizia al romanzo di Giuseppe Lupo, per non averlo voluto leggere prima dello spettacolo (cosa che farò in vacanza)  per non essere legato a un limitante orizzonte di attesa e tuttavia mi viene da pensare che, almeno in certi punti, ne esalti il valore  senza creare sovrapposizione.
Non a caso,  lo stesso scrittore, presente alla rappresentazione teatrale, replicando al regista che, con la modestia che lo contraddistingue, evidenzava il limite implicito ad ogni tipo di riduzione teatrale e sottolineava la difficoltà della scelta di talune situazioni e quindi il rischio di non rendere merito all'opera etteraria, precisava, al contrario, il notevole apporto qualitativo della pièce.
Ci sarebbe molto da dire ancora ma il desiderio di testimoniare nell'immediato inducono a chiudere la breve e lacunosa analisi, della quale ci si scusa nella certezza della comprensione.

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