TALVOLTA la realtà supera la fantasia. Talvolta la realtà è talmente raccapricciante da desiderare di dimenticare. E talvolta c’è chi quell’oblio ricerca con pervicacia, perché non ci siano responsabili e risarcimenti. Tutto questo è accaduto a Balvano. Era il 3 marzo del 1944. In poche ore si è consumata, sotto la Galleria delle Armi, la più grave tragedia ferroviaria di tutti i tempi. Ma pochissimi sanno cosa accadde. E’ “il treno dell’oblio”, quello che si è riempito con circa 600 cadaveri, buttati poi in fosse comuni fuori dal Cimitero di Balvano. Circa 600: non c’è un numero preciso, molti non furono neppure riconosciuti ufficialmente.
«E’ il caso di Anna Orbino - spiega Dino Becagli, regista dello spettacolo “Dal treno dell’oblio”, che sarà portato in scena allo Stabile di Potenza il 3, 4 e 5 maggio - di cui non c’è nessuna notizia ufficiale.
Quando mi sono recato nella cappella a Balvano ho trovato la figlia e la nipote di questa donna.
Sono state loro a raccontami che la mamma era tra quei morti».
Quella di Anna è solo una delle storie raccontate nello spettacolo: «quei fogli ingialliti», come dice Becagli nello spettacolo, possono ancora raccontare qualcosa. E così, su una scena scarna e con pochi effetti speciali, passano le diverse storie. Tanti quadri che raccontano quegli istanti, la paura, lo stupore, lo sgomento. Quello dei sopravvissuti e quello dei morti senza nome.
Tra loro anche due bambine, Giulia e Maria Pia che si muovono con disinvoltura tra gli attori della compagnia “Teatro Minimo Basilicata”. Perché su quel treno si calcolano anche 29 vittime di età inferiore ai 15 anni.
Morti in silenzio, soffocati dal fumo denso che in pochi minuti riempì la galleria e quel treno merci che, invece, trasportava anche tantissimi uomini e donne.
«Parlare di questo treno solo per raccontare la cronaca - continua Becagli - non ci sembrava
opportuno. Certo è ovvio che un minimo di documentazione c’è, ma quello che ci interessava era realizzare come dei piccoli quadri. Con le storie di quei morti che prima di essere tali erano delle persone, con degli affetti e dei sentimenti».
I morti del treno 8017 vennero cancellati, trattati come delinquenti qualsiasi, «facevano il mercato nero, erano puttane, ladri e contrabbandieri».
Non dovevano essere sul quel treno - secondo le autorità dell’epoca - perché quello era destinato solo al trasporto delle merci. Eppure c’era a bordo anche il bigliettaio. «Com’è - si chiede uno dei parenti di due vittime sulla scena - che c’era anche il bigliettaio se quelli a bordo erano solo contrabbandieri?». Eppure così furono liquidate tutte quelle persone. Scaricate alla stazione di Balvano come bestie e ammassate lì per ore. Si pensò anche di dar fuoco a quei poveri corpi e per poco non si fecero sparire quelle uniche tracce della tragedia.
A bordo, in realtà, c’era gente assolutamente normale: c’erano tanti soldati. Speravano che per loro la guerra fosse finita e desideravano solo essere a casa. C’erano mamme e bambini, persone che a Napoli c’erano andate solo per un certificato. E c’era anche chi faceva la “borsa nera”, come Anna - splendidamente interpretata da Lorenza Colicigno - ma per sopravvivere: c’era la guerra, si doveva pur mangiare.
«Indagini frettolose, censura militare e ragion di Stato oscurano l'accaduto, rimuovendolo dalla coscienza nazionale. Questa di Balvano fu, è stata e continua a essere una strage con molti responsabili e nessun colpevole, come molte altre del dopoguerra italiano, con l'aggravante di essere totalmente ignota ai più. L'intento? Ricordare la vicenda attraverso la voce di alcuni sfortunati viaggiatori».
Ci sono libri - pochi - che raccontano quella tragedia (quelli di Mario Restaino e Gianluca Barneschi, per esempio), ma portare in scena delle persone, delle voci e dei ricordi fa sicuramente più effetto. «Come tutti i lavori di Becagli - spiega Edoardo Vallifuoco, che segue la compagnia da “lontano” - anche questo riesce a invogliare lo spettatore a saperne di più. E’ successo anche con i lavori su Albino Pierro, Scotellaro. Dopo aver visto lo spettacolo ti viene voglia di leggere e approfondire. E’ il suo modo di diffondere la cultura lucana nel mondo. Ed è il suo modo di creare anche un senso di appartenenza, di comunità. Perché è la storia che crea una identità e non conoscerla significa restare divisi».
Antonella Giacummo
a.giacummo@luedi.it
da "Il Quotidiano della Basilicata" del 1 maggio 2010
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