Dino
Becagli e “Le regine dei boschi”
Mario Santoro
Che il teatro, negli ultimi tempi,
sia come sottovalutato o non valutato abbastanza o almeno come dovrebbe, nella
cultura genericamente intesa, appare un dato pressoché scontato al punto che,
come sostengono studiosi ed esperti della materia ripetendo con insistenza il
noto paradosso di Peter Brook “ Se ci fosse uno sciopero del teatro, nessuno se
ne accorgerebbe”, si assiste ad una sorta di stagnazione.
Le cause del progressivo disinteresse del pubblico, che ha tante
alternative e molti motivi di distrazione e di divertimento, sono varie e anche complesse da analizzare e
tutte, o quasi, rimandano ad un generale decadimento della cultura e,
conseguentemente, alla propensione verso programmi di mera evasione e che non
comportino impegno alcuno.
Si determina, perciò,
l’allontanamento e si assiste alla crisi
e all’ isolamento dell’attore di teatro che rischia di essere tagliato fuori se
non ricorre, e non sempre è facile o possibile, alla multimedialità.
Vale un po’ quello che si dice per
la poesia e per il poeta contemporaneo che è letteralmente smarrito e confuso e
alla ricerca sempre di nuove coordinate
e di punti di riferimento.
Ma se tutto questo è certamente
vero, non si spiega perché quando è l’attore Dino Becagli, in qualità di
regista, a portare in scena personaggi e situazioni, l’interesse risulta vivo
ed evidente come è accaduto in questi giorni con lo spettacolo “Le regine dei
boschi” che è il racconto delle “brigantesse del postunitario in un musicol
popolare” con attori come Chicca Anastasi, Eva Bonitatibus, Tonia Bruno,
Lorenza Colicigno, Giancarlo Cuscino, Nicola Fiore, Iole Franco, Nura
Spinazzola, con gli arrangiamenti musicali di Rocco Gruosso su brani di Pietro
Basentini, con le scene e i costumi di
Gerardo Viggiano, il coordinamento tecnico di Antonio Salvia e l’accompagnamento del coro Melos,
diretto da Enza Carlucci e costituito da Nadia Colonnese, Michele Di Tommaso,
Rocco Gruosso, Maria Rosaria Napoli, Alessandra Nobile, Leo Nuzzaci, Mauro
Panzanaro, Antonio Santarsiere, Cinzia Sanza,
Antonella Sterlicchio.
La sorpresa è tanto più grande se
si considera che per quattro serate (non una o due, si badi bene!) il teatro è stato letteralmente gremito ed
alcuni hanno dovuto rinunciare per la mancanza di biglietti. Mi pare si tratti
di un evento talmente raro da generare stupore che forse dovrebbe spingere alla
riflessione.
La risposta sta tutta nella
bravura del regista da sempre super
impegnato e alla ricerca di temi sul versante dell’identità culturale-regionale
ed ultra e con attenzione alla scelta dei contenuti, senza mai scadimenti nel
facilismo di maniera o nella ricerca dell’effetto immediato e del semplice
consenso; rigoroso nell’indagine e nella cura dei particolari con spirito
progettuale oggettivo e con alla base
una preparazione di fondo fuori dal comune egli profonda il massimo delle
energie e punta sempre ad un prodotto di qualità.
Di qui, per il lavoro su indicato,
lo studio attento e meditato e la disposizione alla ristrutturazione dei testi
con numerose operazioni di smontaggio per scritture sempre più affinate e
meglio adeguate alle situazioni, sulla scia dei grandi maestri come Ronconi, Castri o ancora Sepe, ma anche come De Bernardis o Carmelo Bene, solo per
fare qualche nome, e con rimando a certe forme come quelle del teatro
minimalista, con la messa in crisi della parola accusata sovente di falsità e
di convenzionalismo esasperato, ma anche con richiamo al teatro cosiddetto
letterario e alla rappresentazione del ben noto “dialetto multiplo” collegato
fortemente alla condizione emotiva nel rimando immediato al sistema sociale e
quasi nella propensione ad andare oltre il fenomeno della contaminazione e del
bilinguismo.
Cultura profonda, dunque, che,
senza sbandieramenti, alla fine domina, com’è giusto che sia, senza imposizioni perché Dino
Becagli appartiene a quel genere di persone che, se conosce al meglio dieci
parole, ne pronuncia una e non all’altro gruppo, che raccoglie la maggior parte
della gente che se ha sentito una parola è capace di vomitarne tante, sbandierando magari la facile pomposa
affermazione di non prendere lezioni da nessuno e di rimanere, conseguentemente
sempre al palo.
Alludo, se non si fosse compreso,
alla modestia che è stile di vita dell’autore e che, coi tempi (mala tempora)
che corrono, rischia di non essere, se non alla distanza, una virtù .
Lo spettacolo risulta
gradevolissimo ed interessante, diretto ed efficace, immediatamente
coinvolgente, sin dal primo impatto,
originale non solo nell’impostazione ma anche nello sviluppo, equilibrato in
ogni sua parte, ricco di notazioni storiche,
con situazioni varie e modalità
di riferimento personalizzate e di rimandi che potevano rischiare il velo della
monotonia e della ripetitività; inoltre risulta capace di oltrepassare i limiti
del consueto abitudinario e di impedire il pericolo della cristallizzazione di
stereotipi che la storia ufficiale, che è sempre quella dei vincitori,
comodamente tramanda ma anche di evitare di cadere nell’esatto contrario, e cioè nella
rivalutazione e valorizzazione acritica dei vinti, ossia di coloro che,
fatalmente, sono destinati a rimanere senza voce.
Va detto ancora che lo spettacolo
evidenzia una chiave critica e di natura globale molto chiara, ben ancorata ai
fatti oggettivi e mostra un perfetto raccordo delle situazioni tra loro ben
amalgamate e di conseguenza non c’è mai il rischio della spezzettatura o dell’incrinatura dell’unità del montaggio e quindi non si assiste al ricorso ai cosiddetti trucchi del
mestiere, e mantiene una costante ritmicità dal principio alla fine.
Perciò lo spettatore non è mai
stato costretto alla passività ma sempre compartecipe attivo delle varie
situazioni, se non anche , in taluni passaggi, co-attore.
Il testo teatrale, smontato,
rimontato, come già detto, scritto e riscritto, meditato e ripensato, in un lavoro di revisione
continuo fino alla ossessività, risulta tale da consentire margini e spazi di
libertà agli interpreti nella diversificata e ugualmente efficacia
presentazione dei soggetti in questione
e dunque in nessun punto rischia il rigidismo spesso presente in alcune
manifestazioni.
Le diverse brigantesse, per l’occasione
“regine” dei boschi, di provenienze varie ed anche ultraregionali, raccontano
con il loro linguaggio, ora tagliente, ora duro, ora al contrario morbido, più
spesso rapido ed impressivo o ironico e mordace, le loro storie ricche di
violenze, prepotenze, cattiverie, tradimenti, intrighi, gelosie ma anche di
sentimenti buoni, di fedeltà usque ad, di amori, con passaggi allusivi facili da intendere,
con il riconoscimento delle proprie
colpe ma anche con accuse puntuali e veritiere, con analisi sorprendentemente
acute nella loro essenzialità e senza indulgere pro o contro conservando sempre
il dato della oggettività.
Non fanno torto alla storia che è
sempre più complicata di come appare se vista da una sola angolazione, con il
rimando indiretto e appena accennato
alle condizioni socio-culturali del tempo conservando il giusto equilibrio tra
la narrazione di cui parlano i libri di scuola e la controstoria o storia
altra, tra i racconti ufficiali e, ovviamente solo in parte veritieri, imposti
dai vincitori, come accade sempre a tutte le latitudini e in tutti tempi, e
quelli ufficiosi, scarsamente tenuti in
considerazione e talora portati all’enfasi e all’esagerazione che finiscono, dileggiati ad arte, col
danneggiare se stessi.
Emerge, contro la visione storica
di chi vince che Pareto definisce della
aristocrazia, con tutto quello che ne consegue, un quadro più valido tra torti
e ragioni più o meno equamente distribuiti, come ha tentato di fare nei suoi
libri Carlo Alianello, e soprattutto lo sforzo di analizzare le condizioni di
vita come racconta una brigantessa che prende in considerazione un aspetto della
storia generalmente trascurato, ossia l’organizzazione logistica e le
difficoltà pratiche, vuoi per procurarsi cibo in quantità notevole per gli uomini e per i cavalli, vuoi per la
disposizione delle stalle, i luoghi
dormitori maleodoranti, la continua promiscuità, le difficili condizioni
igienico sanitarie e la conseguente lotta finanche contro i pidocchi, come
racconta, in certe pagine straordinarie e di rara intensità, lo scrittore
lucano Felice Scardaccione, autore del bel romanzo “El Alamein” .
E qui, va detto, sarebbe logico
attendersi da parte delle “regine” il diritto a pretendere una maggior
attenzione e considerazione per i ribelli
la cui situazione era di gran lunga peggiore rispetto ai soldati
piemontesi e invece (ed è stato apprezzatissimo) esse mantengono la giusta distanza, pur
evidenziando, da parte dei nemici aggressori, stupri, violenze, sopraffazioni,
mancanza di rispetto di ogni sorta di diritto umano, calpestato senza riguardo
e talora brutalmente, e non tacciono
altrettanta violenza da parte del
mondo minoritario dei briganti,
con giudizi di autocritica apertamente dichiarati e finanche impietosi.
A tratti affondano nella storia
alla ricerca di cause diverse, di impegni non mantenuti, di promesse
sistematicamente mancate con chiaro rimando alla “terra ai contadini” da parte
di Garibaldi; ricordano che proprio la speranza del mondo rurale e agricolo di
poter disporre della terra per lavorare
aveva spinto i contadini a
schierarsi dalla parte del Piemontese; sottolineano l’unificazione fatta come
conquista e non come liberazione, l’imposizione di regole e norme senza
contropartita, il generale malcontento, la disobbedienza sistematica, il
rifiuto della leva obbligatoria e altro ancora.
Tutto questo viene fuori con
chiarezza e semplicità e si coglie per tratti soprasegmentali anche quando non
è espressamente dichiarato oltre che per sottili allusioni, senza scadere, come
accade in altri spettacoli, in una sorta di fatalismo e di sorte nera.
Di conseguenza lo spettacolo ne
guadagna in tutti i sensi.
Di qui, io credo, la scelta
accurata dei canti durante tutta la rappresentazione, nella evidente morbidezza
dei toni e di qui il rifiuto di taluni più noti e scontati ma anche più
rumorosi nella facile assonanza ed esagerazione a scapito della obbiettività.
E si potrebbe anche dire che tutta
la rappresentazione è anche una bella pagina al femminile dal momento che sono
le donne le vere protagoniste, con il
loro stile inconfondibile, le differenti personalità, la forza spirituale dei
loro caratteri, i tratti peculiari che sovente le rendono superiori agli uomini
e comunque sempre degne di essere alla pari degli stessi.
Uno spettacolo ben degno di
attenzione e meritevole di essere ripetuto altrove per una diffusione capillare
e per il recupero di processi di cultura che richiamano l’identità di un
popolo; una rappresentazione che fa onore alla città, capoluogo di regione, in
contrapposizione con la scarsa vitalità della stessa, lamentata da tanti che
invocano, giustamente, la necessità della valorizzazione appunto perché centro
di riferimento più grande.
Aspirazione, quest’ultima,
legittima!
E sono fortemente convinto che lo
spettacolo di Dino Becagli vada anche in questa direzione e che, occasioni come
questa, vadano sfruttare al meglio da parte di chi di competenza, in un’opera di diffusione
nell’ambito regionale e oltre, facendo magari anche lo sforzo di rendere meglio
fruibile il teatro cittadino, che è un piccolo gioiello e dovrebbe essere
facilmente raggiungibile anche da parte dei potentini che non abitano nel
centro storico, e sono la stragrande maggioranza.
E così, considerata la penuria di
parcheggi, almeno nei giorni degli
spettacoli che contano, si potrebbe ipotizzare l’apertura delle scale mobili
(altro gioiello cittadino) oltre l’orario miserevole delle ventidue per un
rientro comodo e tranquillo, o almeno non faticoso e avventuroso.
Si tratta di un suggerimento banale
(sempre che non si voglia impugnare lo scudo tipico di chi non prende lezioni da nessuno di cui sopra)
quanto utile che potrebbe contribuire a
dare respiro alla città che diversamente rischia di rimanere, come sottolineano
critici importanti, un anonimo paese senz’anima.
Si tratta di una piccola cosa che
Dino Becagli, il teatro, e la città, capoluogo di regione, meritano.
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